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L’impossibilità del ritorno

Il viaggio dell’esistenza può scorrere su varie strade, a seconda dell’indole della persona; tra queste ne analizzeremo due: una linea che definiremmo “rassicurante”, tendente alla conservazione della posizione conquistata, o proiettata verso il proseguimento di un progetto tramandato da generazioni, quindi di tendenza stanziale; una seconda linea che si dirige invece verso l’esplorazione, mossa da curiosità o necessità, per cui si allontana anche fisicamente dalle aspettative del proprio circolo sociale, seguendo appunto una tendenza “migrante”.

Questa seconda tendenza oggi sembra prevalere tra la gioventù, per lo meno presso un numero significativo di studenti universitari. Una buona palestra che schiude le porte della fantasia sono le precoci gite scolastiche all’estero, le vacanze famigliari che implicano come minimo un viaggio aereo e, in fase universitaria, l’esperienza “Erasmus”, o simili progetti interculturali.

In quest’ultima fase, il distacco dal nucleo famigliare associato alla sperimentazione di vita all’estero convince molti giovani a tentare di restare fuori dal proprio paese, o a contemplare il trasferimento in futuro.

Indipendentemente dalle eventuali esperienze universitarie, la possibilità di vivere all’estero viene presa in considerazione, almeno come esperienza temporanea, anche per rimpolpare il CV, o come alternativa alla disoccupazione in patria. Tra la gioventù, o ex-gioventù in alcuni casi, la migrazione può anche essere indotta da ragioni sentimentali: i rapporti a distanza favoriti dalle reti di contatti fanno schiudere una porta su di “un’altra possibilità di noi stessi” come cittadini di un mondo differente (per quanto la cosiddetta globalizzazione si sia sforzata per anni di unificare il più possibile usi e… consumi).

Sta di fatto che già dal momento in cui si saluta tutti e ci si ritrova con il trolley all’aeroporto, la percezione del paese di approdo cambia drasticamente, in pratica muore il turista e nasce l’emigrante.

C’è sempre un Virgilio, sotto forma di compagno di appartamento, di studi o di lavoro, che per amicizia o simpatia ci “assiste” nella scoperta del nostro Nuovo Mondo e si rivela strategico per comprendere alcune dinamiche locali.

Può trattarsi anche di qualcuno che in situazioni differenti, o nel nostro paese, avremmo bellamente ignorato sotto l’influsso del pregiudizio, o di parametri generati dalle cerchie ristrette da cui si proviene.

Il nostro Virgilio molto spesso resta un punto di riferimento; se è stato emigrante come noi e se proviene da una cultura molto differente sarà interessante capire quanto il background della persona influisca sulla maniera di analizzare la realtà, ma anche di quante fondamentali similitudini ci siano tra gli esseri umani, indipendentemente dalla loro origine.

Il migrante sperimenta simultaneamente il bilinguismo, ma anche il “bi-patriottismo”. Mentre si addentra nella realtà locale, informandosi, conoscendo persone, leggendo e ascoltando, resta anche virtualmente presente in patria e nel proprio ambito famigliare e sociale attraverso la stampa, la televisione in streaming e tutti i mezzi possibili e immaginabili offerti dai social network.

L’attaccamento alla madre patria può anche favorire la nascita di una visione idealizzata; uno degli aspetti su cui difficilmente si transige è l’alimentazione –almeno nel caso di noi italiani- per cui quello che in patria sarebbe il normalissimo cibo del desco quotidiano, all’estero diventa un miracolo da nouvelle cuisine.

Negli incontri con i compatrioti è abituale far riemergere ricordi di gioventù o dell’infanzia, che vengono scandagliati tanto per scoprire codici e sottintesi condivisi.

Se la nostalgia si fa forte, quasi sempre per le difficoltà che la nuova realtà impone, il migrante rischia di restare intrappolato nel non-mondo virtuale, che lo consola e gli inocula il seme del ritorno.

Nel frattempo però il divario tra il migrante e chi è rimasto “a casa” si accentua: il migrante ha l’impressione che chi è rimasto “sia sempre uguale” mentre chi è a casa nota i cambiamenti di abitudini del migrante. Su questo punto va detto comunque che la continuità virtuale attualmente riduce considerevolmente il divario; in altri tempi, il migrante che comunicava solo per lettera, esercitava un impatto decisamente più significativo sui parenti che lo vedevano tornare dopo vari anni di assenza.

In ogni modo, quando la permanenza all’estero è lunga, diventa difficile tornare e reinserirsi, accantonando tutte le esperienze vissute. Il ritorno del migrante diventa allora una specie di nuova migrazione in una realtà che non è più quella che ha lasciato; dovrà saper aggiustare il tiro e incassare qualche delusione. Il lato positivo è che, se non prevale la diffidenza di chi è rimasto, il migrante di ritorno sarà anche veicolo di nuova linfa per il circolo in cui si reinserirà.

C’è un altro affascinante risvolto: compresa “l’impossibilità del ritorno”, il migrante, ibrido tra due culture e apolide, scopre di essere predisposto per infinite potenzialità e quindi, giunti a questo punto… perché non salpare verso ulteriori mari?

Dopo la prima rottura delle barriere, il migrante ha sviluppato una piccola corazza fatta di esperienza e scaltrezza, realismo nelle aspettative, consapevolezza. Avrà soprattutto fatto tesoro di un paio di cosette utili: l’inutilità della nostalgia che vincola ad un passato idealizzato e soprattutto la scoperta che sotto la scorza della razza e della religione l’essere umano nella sua essenza rivela sempre le stesse paure, gelosie, intuizioni, aspettative, motivi di felicità o tristezza.

Infine, che l’aver conosciuto tanta gente gli ha fatto imparare un sacco di cose su sé stesso, comprendendo che proprio l’ignoranza di sé stessi e del mondo degli altri è il grande motore del pregiudizio e dell’esclusione.

Purtroppo nei paesi più fortunati regna sovrano lo spauracchio dell’invasione che ha favorito la rinascita di paurosi estremismi, eppure i frutti a lungo termine della migrazione, dell’incrocio culturale e relative conseguenze sono visibili in “grandi nazioni”, leader del mondo, che oggi pretendono di ergere muraglie di difesa.

Il nomadismo dei popoli fa parte della storia dell’uomo ma pare che oggi la migrazione sia ben vista solo se riguarda determinate categorie, tra cui i giovani disoccupati europei e gli studenti dell’Erasmus.

Resta da sperare che a parte il titolo di studio e i ricordi di anni di genio e sregolatezza, le nuove generazioni portino a casa anche nuove strategie di confronto e che diventino adulti di ampie vedute.

Chi è l'autore

Nadia Zamboni Battiston

Nadia Zamboni Battiston vive e lavora a Barcellona, Spagna. Dopo la laurea in Lingue all’Università di Ca’ Foscari, Venezia, ha lavorato e lavora principalmente come traduttrice in Italia, Argentina, Spagna. A Barcellona ha iniziato lo studio di tecniche di scrittura.

Gaver

Ha studiato Designer sperimentale presso Accademia di belle arti di Roma
Precedentemente: 6°liceo artistico di roma. I miei lavori sono sperimentazioni acrobatiche indispensabili alla sopravvivenza creativa di un'entità eclettica. "Perchè di disegnare non si finisce mai"

di Nadia Zamboni Battiston, Gaver
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